Il monte Conero

La spiaggia delle due sorelle, da Sirolo, per il passo della Croce.

Un sentiero ardito che sa di archeologia industriale, i profumi della macchia mediterranea, i panorami a picco sul mare, i colori del mare; quando gli opposti si attraggono, diventano una cosa sola e si fondono in un contesto naturale di assoluta bellezza.


Mare e montagna, opposti per antonomasia, quasi mai riescono a mettere d’accordo passioni e sentimenti, luoghi comuni oppure ataviche propensioni dividono popoli di appassionati dell’aria aperta e di vacanzieri; a volte però si innescano momenti speciali in cui è facile avvicinare gli opposti sentimenti, il mare e montagna diventano una cosa sola in cui il bello del connubio non sarebbe tale senza uno degli elementi; oggi è stato esattamente così, gli opposti si sono attratti. Al mare ci sono nato e tanto mi è bastato, capita che ci torno, il più delle volte perché spronato a farlo, anche se poi sono sempre grato a chi mi ha spinto a farlo; sono nato sul mare, un paesino anonimo disteso su una esile striscia della costa adriatica delle Marche contesa alle colline, andavo in spiaggia come tutti e il mare lo vivevo più di altri, per anni mi tiravo giù dal letto alle quattro del mattino per battute di pesca con la rete, la tratta dalle mie parti, allora si poteva, ricordi indelebili, appassionati e romantici; ho praticato wind surf per anni, potevo anticipare l’orario di ingresso al lavoro alle 6 della mattina per avere il pomeriggio da dedicare alla vela e al mare, un bel momento di vitalità; mentre giocavo col vento e con le onde gli orizzonti di quel periodo erano le belle colline marchigiane e la sagoma scura e tonda del monte Conero a Sud, a non più di venti chilometri, ancora li vedo e li vivo come fosse ieri. Per tanti anni quella sagoma scura è stata solo la montagna di Ancona, una attrazione per chi veniva da fuori, una “stranezza” che spezzava la bassa linea della costa adriatica per me; erano le spiagge rocciose raggiunte con le imbarcazioni, erano le gite nei luoghi più famosi, Portonovo, Sirolo e qualche mangiata dei gustosi “moscioli” (le cozze) ma a questo contesto rimaneva confinata, non l’ho mai vista come montagna. A dire il vero montagna quasi non lo è nemmeno per la geografia, con i suoi 572 mt di altezza non arriva al limite orografico per giustificarne l’appellativo; visto da terra è un crescendo collinoso che davvero di montagna sa nulla o quasi ma se si ha la fortuna di vederlo dal mare l’aspetto cambia totalmente. Considerato a tutti gli effetti la propaggine Est dell’Appennino umbro-marchigiano, come questi ha avuto la stessa origine e ha le stesse caratteristiche, formatosi tra i centotrenta e i cinque milioni di anni fa, anche il monte Conero presenta il versante Est verticale, scosceso e più o meno roccioso mentre quello Ovest degrada dolcemente verso l’entroterra in situazioni collinari più o meno pronunciate. Visto sia da Sud che da Nord, a causa della sua forma allungata e tondeggiante, è stato descritto in letteratura come una balena che si erge dal mare, se visto invece da Est assume i connotati di vera e propria montagna; la distingue una falesia continua, nella parte centrale alta fin poco sotto la vetta e degradante mano a mano che si allunga verso Nord e verso Sud, i boschi prevalentemente di macchia mediterranea in pochi tratti scendono fino al mare mentre lo ammantano completamente nella parte oltre gli spigoli di cresta; nell’entroterra la macchia si dirada solo quando l’agricoltura e la tipicità della vite del Montepulciano che qui diventa il vino D.O.C. Rosso Conero l’hanno contesa alla terra. Alcune falesie sono lisci lastroni di calcare (qui maiolica), molte, soprattutto quelle aggettanti sul mare sono calcari friabili di Scaglia Rossa, un agglomerato sedimentario più recente, tutte le scogliere, speroni e faraglioni che si ergono dal mare formano, con i tanti sedimenti a strati, gli uni sugli altri, dei veri libri geologici da leggere e interpretare. La storia di questa montagna è fatta di presenza umana fin dall’antichità, del medio evo o poco prima sono le grotte ad uso romitori di monaci eremiti, poi i primi conventi benedettini sulla parte alta della montagna; è fatta di lavoro e sudore con le cave a livello del mare; i primi per accesso ai pascoli e al taglio dei boschi, gli ultimi per raggiungere la cava, hanno segnato la struttura viaria e sentieristica di questa montagna, soprattutto gli ultimi hanno creato delle vie di accesso alla spiaggia di arditezze assolute. Prima del 1912, data di apertura del sentiero delle Due Sorelle (per molti il sentiero del Lupo), l’accesso alla cava sulla spiaggia dei Gabbiani, attigua a quella delle Due Sorelle, era assicurato dall’unico corridoio naturale esistente, oggi corrisponde al sentiero dell’Altare, “con mirabile dirittura, gallerie verdeggianti e ripide svolte scavate nella roccia fagocitava giornalmente il passaggio di decine di cavatori, mossi da un reddito effimero quanto vitale” (da “Conero, i sentieri del lavoro” di Francesco Burattini auto prodotto-FBA). Nel 1912 gli operai stessi della cava aprirono il sentiero dal passo della Croce, oggi erroneamente conosciuto come il sentiero del passo del Lupo, che nonostante l’arditezza facilitava non poco la discesa alla spiaggia; l’apertura di questo tracciato aveva dato spinta “ingegneristica” e negli anni successivi i lavoratori che provenivano da Sirolo, percorrendo la spiaggia di San Michele e dei Sassi Neri, aprirono il sentiero della Galleria o dell’Arco, arrivavano sul posto di lavoro salendo il “Pirolo”, faraglione che delimita la spiaggia delle Due Sorelle; prima superavano una punta del monte a mare con dei pioli di ferro posti appositamente, poi sul “Pirolo” percorrevano prima una cengia detritica molto esposta e poi una galleria di 18 metri aperta allo scopo, e alla fine utilizzavano corde e supporti fissi per superare la parte alta dell’arditissimo sperone sul mare. Inutile dire che dopo questa fase di “necessità” molti di questi sentieri sono stati quasi abbandonati e/o sono poco manutenuti, se pensiamo al valore culturale, storico, storico sia dal punto di vista naturalistico che del lavoro, viene da domandarsi davvero quale lungimiranza regni nelle stanze dei nostri burocrati che presi da questa onda anomala di proibizionismo senza logica rischiano di perdere un patrimonio unico. I sentieri rischiano di perdersi nell’oblio ma resistono perché spesso frequentati dagli scalatori anconitani, ma tante vie di arrampicata si sono aperte, di straordinario fascino e a picco sul mare. Per raccontare ancora di questo promontorio che spezza letteralmente la piatta fascia costiera adriatica in due, andrebbero narrate le storie dei seguaci di San Benedetto che la storia o la leggenda dice aver popolato le tante grotte sparpagliate dal livello del mare fin quasi alla sua cima, andrebbero raccontate le tante storie ancora oggi non definite dei tempi della guerra fredda che volevano il monte custode di segreti militari e di basi nascoste nelle viscere della roccia ad “ascoltare” i segnali oltremare, andrebbe raccontato come quello che oggi è un monte così verde e ricco di vegetazione sia stato intorno al 1500, ai tempi della cittadella di Ancona, un monte completamente spoglio ed eroso dagli agenti atmosferici; venne disboscato completamente per il procacciamento del legname e quello che appare oggi come un tipico esempio di macchia mediterranea è invece un prodotto di un sapiente rimboschimento avvenuto in epoca nemmeno troppo remota, il resto lo ha fatto la forza della natura. Averlo percorso oggi, aver dovuto e voluto approfondirne la conoscenza per questa occasione è stato per me aprire un rimpianto di una grande occasione perduta, avrei potuto viverlo e conoscere a fondo quando era a “portata di scarpone”. L’occasione perduta è oggi quasi una colpa. La nostra giornata. Il desiderio era di passare delle ore in una delle spiagge più belle d’Italia, quella delle Due Sorelle, raggiungendola però da terra, dal sentiero che ho già citato, erroneamente detto del passo del Lupo e a dire il vero oggi proibito; ci tengo a dire che non voglio incoraggiare nessuno a fare altrettanto, sia perché un divieto rimane comunque tale anche se senza senso e perché il sentiero per la sua metà scorre su una stretta cengia ripida, sempre ben percorribile ma con molte esposizioni anche accentuale, scorre soprattutto all’inizio su uno sperone verticale che si stacca dalla falesia, è molto verticale e sottile, semi nascosto per lo più dalla vegetazione che nasconde le verticalità vicinissime verso Est, ma non per questo sicuro. La vegetazione impedisce in molti casi di soffrire l’esposizione ma non sarebbe in grado di proteggere in caso di caduta; dove la vegetazione manca potrebbero insorgere momenti di vertiginose situazioni e soprattutto dove il sentiero ripiega su se stesso in strette svolte inevitabile diventa vivere momenti di vuoto importanti. Nelle parti più esposte e per lunghi tratti c’è un vecchio cavo di acciaio a dare sicurezza ma oltre che non essere manutenuto in molti casi è anche rovinato o male assicurato. Insomma, come al solito avviene in Italia un sentiero storico, che racconta un pezzo della nostra storia industriale, in questo caso anconitana, è stato abbandonato e per non assicurarlo e manutenerlo è stato vietato, come dire se ti succede qualcosa il comune di Sirolo se ne lava le mani ed è solo colpa tua che ti ci sei avventurato. Va forse detto che come al solito la verità e la saggezza sta nel mezzo, il sentiero viene usato molto spesso, troppo spesso anche da bagnanti improvvisati escursionisti, si vede di tutto, dalle infradito agli ombrelloni sotto braccio per finire coi bambini sulle spalle dei papà, per fortuna e almeno dentro gli appositi seggiolini. Lungo i trecento metri di dislivello se ne vedono di tutti i colori, si rabbrividisce per la grande leggerezza con cui i bagnanti affrontano il sentiero (si evita il costoso biglietto delle motobarche che fanno la spola tutto il giorno fino alla spiaggia), gli incidenti anche gravi ci sono stati ed oggi non è difficile beccarsi una multa, soprattutto nei periodi clou estivi; gli agenti della municipale sono ad aspettarti all’arrivo in spiaggia per chi scende e all’arrivo al passo della Croce per chi sale. Peccato questo malcostume, sia della gente sprovveduta che del comune di Sirolo, toglie la fruibilità di un sentiero che un appassionato di montagna non può non avere nel suo curriculum. Va detto anche che al di là delle esposizioni e della manutenzione, il sentiero per chi è bene attrezzato e avvezzo alla montagna non è di più e non è di meno di tanti sentieri degli Appennini; ovvio, la famosa spiaggia, punto di arrivo, nella stagione estiva è il motivo per attirare ogni tipo di turista, e forse è proprio questo il motivo principale che ha “obbligato” il sindaco di Sirolo a porre il divieto. Comunque noi ce l’abbiamo fatta, non abbiamo beccato multe e non abbiamo nemmeno intercettato segnali di divieto ai due imbocchi. Ecco come è andata. Seguiamo il percorso per così dire turistico, le guide consigliano di iniziare da Fonte dell’Olio, un quartiere a Nord di Sirolo, dalla strada provinciale del Conero dove nei pressi di un curvone ha inizio il sentiero della “traversata alta” del monte; parcheggiamo (a pagamento) accanto al cimitero di Sirolo, imbocchiamo la strada brecciata in leggera salita che costeggia il cimitero stesso e ci inoltriamo tra ville con stupende viste mare, campagne scoscese dove filari di Montepulciano si contendono il territorio con la macchia mediterranea, e più avanti tra la profumata macchia mediterranea stessa. Arbusti bordo strada ci regalano momenti di ombra benedetta, si alternano ad ampi slarghi che aprono i primi orizzonti con vista mare sulla costa Sud e sul bel profilo di Sirolo appollaiato a picco sul mare; intercettiamo nei pressi di un ampio curvone il sentiero TA che arriva da Fonte d’Olio, un chilometro e mezzo circa dal parcheggio, non avremo superato più di 100 mt di dislivello; al curvone si prende a destra, stretta curva a gomito, in leggera “traditrice” pendenza. Dopo poche centinaia di mt ad un bivio si continua in basso e si tralascia la brecciata che sale verso la cime del monte e l’ex convento dei benedettini (segnaletica CAI all’incrocio), in questo tratto si cammina nel bosco fino ad incontrare un altro incrocio dove si prende la brecciata che sale (a destra continua in piano per pochi metri fino all’ennesimo cancello di una proprietà privata). Ho detto prima che non ho incontrato cartelli di divieto, non li ho incontrati dove mi aspettavo di incontrarli, voglio dire cioè sul ciglio del passo della Croce, li incontro in questo incrocio, due cartelli di divieto di accesso uno dei quali esplicito anche per i pedoni; del tutto incongruenti però perché una scritta riporta chiaramente il divieto per tutto il percorso del “passo del lupo”. Come già ho più o meno fatto capire in precedenza c’è da dire che la letteratura dei sentieri del monte Conero che si può leggere è molto contradditoria, c’è confusione sulla corretta localizzazione del passo del lupo; la carta (un po’ troppo sommaria a dire il vero), di cui riporto uno stralcio della parte interessata, autoprodotta da Francesco Burattini col patrocinio del CAI, pone il passo del lupo sul sentiero verso la cima della montagna, nei pressi della località denominata Belvedere, il sentiero che stavamo imboccando conduce sullo sperone del passo della Croce, da dove inizia poi il tratto di sentiero verso la spiaggia delle Due Sorelle, tratto notoriamente vietato. Questa è la corretta toponomastica delle località, il resto è cultura popolare, nozionismo che si tramanda vocalmente. La confusione che si genera espone però a diverse letture del divieto; il cartello che si incontra pone due condizioni o dubbi, o è sbagliata la toponomastica dei luoghi o è sbagliata la scritta sotto i divieti e quindi i divieti stessi. Immagino che ci sia stata perizia da parte degli ufficiali comunali e mi viene difficile pensare ad un errore così grossolano da parte loro, ma mi viene altrettanto difficile attribuire l’errore a Francesco Burattini, istruttore nazionale di alpinismo, frequentatore dei sentieri del Conero dall’età di 12 anni quando col nonno cavatore li percorreva regolarmente, nato a Camerano, paese alle pendici del Conero e per questo profondo conoscitore del monte e appassionato, amante del monte stesso. In Italia l’importante è vietare, cosa molte volte nemmeno lo si sa. Dal bivio con i cartelli di divieto la brecciata, ora più stretta, prende a salire per pochi metri, si allarga di nuovo attraversando una radura dove olivi secolari fanno bella mostra prima di inoltrarsi con decisione nel bosco di macchia mediterranea. Finalmente la via si fa sentiero, stretta e ombrosa, ogni tanto regala un affaccio sul mare e sulla costa sottostante che nel frattempo si è avvicinata rapidamente, ci stavamo avvicinando alle famose rupi del Conero che aggettano direttamente sul mare. Querce (forse Roverelle), Lecci, Corbezzoli, qualche Pino, Ginestre, Ginepri, profumo di resina e di salsedine, quel mix inconfondibile del bosco di macchia mediterranea, boscaglia bassa e fitta; le folate di vento oltre che toccasana per noi, aumentavano l’intensità dei profumi, tra la bassa e arsa vegetazione ogni tanto uno squarcio lasciava intravedere il mare che si andava increspando, l’orizzonte si confondeva col mare stesso; che peccato il caldo di oggi a la pesante umidità non permettessero chiari e infiniti orizzonti. Continuando in piano e rimanendo dentro il bosco tagliamo il versante Sud del monte fino ad arrivare allo scoperto, un piccolo slargo e ci si apre la vastità dell’Adriatico davanti, siamo sullo spigolo Est del monte, due passi più in là il versante scende verticale fino alla spiaggia, si tratta del passo della Croce, quello che per molti è il passo del Lupo; su un cippo in pietra una piastrella in ceramica riporta una spiegazione geologica che si destreggia tra maioliche, scaglie rosse e bianche e marne per spiegare l’origine del monte Conero, del “Pirolo” e delle “Due Sorelle”, i faraglioni giù in basso, veri libri di geologia a cielo aperto (per chi sa leggere le pietre le sue forme). Il panorama è d’impatto, potente, il senso di vuoto attenuato dalla vastità dell’orizzonte è forte, mare e montagna, mare e roccia si sposano in un connubio elettrizzante e dal fascino assoluto. Fin qui tutto semplice, ampi panorami, ampie carrarecce e facili sentieri; sulla sinistra del passo prende invece a scendere una traccia che subito diventa ampia cengia, scoperta dalla vegetazione e per questo molto esposta, un vecchio cavo di acciaio sul lato montagna offre appiglio sicuro; è il sentiero aperto dai cavatori di pietra di cui ho già detto, il sentiero aperto per evitare vie più complicate per raggiungere la cava che si trovava oltre la baia delle Due Sorelle, poco più in là dei faraglioni che portano lo stesso nome e che già si vedono verso Nord trecento metri più in basso, conoscendone le origini è come camminare su una pagina di storia. Se pur ardito ed esposto rappresentava allora le più comoda e breve via di discesa; venne poi attrezzato e messo in sicurezza dal CAI di Ancona e alla fine negli anni più recenti abbandonato a causa del divieto imposto dal comune di Sirolo. Il primo tratto è ripido ed esposto, si appiana un po’ e continua con un breve traverso su una bella traccia coperta da cespugli, alcuni tratti riprendono ad essere immersi nella boscaglia (non farsi distrarre, il versante precipita ugualmente) per poi ritornare ripido ad aggirare uno sperone appena discosto dalla parete, frequenti i tornanti, anche stretti e aggettanti sul ripidissimo versante, molte le rocce levigate che scalettano, diversi i piccoli salti di roccia in cui occorre disarrampicare, il cavo di sicurezza c’è quasi sempre ma tocca comunque fare attenzione, è vecchio e in alcuni casi lento, le rocce sono levigate e quindi scivolose, anche la presenza di pietrisco può far perdere l’aderenza e lì vicino ad incombere c’è sempre il vuoto; superato lo sperone sotto il passo della Croce il sentiero inizia a traversare con pendenza minore e minore esposizione, aggira l’imbuto verde che scende dal Belvedere (imponente la falesia bianca che ci sovrasta) e con altri stretti tornanti scalettati ma sempre scivolosi raggiunge la selletta del “Pirolo” il faraglione che delimita la spiaggia delle Due Sorelle verso Sud. Una piccola sella, una sottile lingua di terra divide i versanti delle due spiagge, le Due Sorelle a Nord, quella delle Velare a Sud che si può vedere attraverso un stretto camino, verticale poco meno di cento metri sotto. I riflessi ed i colori del mare iniziano ad essere ammalianti. Sulla sella, verso la punta del faraglione, si inoltra tra la vegetazione una flebile traccia, è il sentiero dell’Arco che permette di scendere sulla spiaggia delle Velare, il sentiero ardito, ripido, che attraversa l’artificiale galleria di 18 metri, che oggi a causa di crolli è priva della falesia detritica poco sopra la spiaggia e che per essere completata necessita di una discesa in corda doppia. Dalla forcella si scende verso Nord, il sentiero continua contorto, impervio più che esposto, qualche tornante ancora e si finisce dentro un piccolo ghiaione che perpendicolare alla montagna scende fino al mare; il cavo di acciaio ci fa compagnia fin quasi alla spiaggia. Pochi metri sopra, accanto ad una grossa roccia dovevamo intercettare, parallela al mare, la vecchia traccia dei cavatori che traversa fino alle Due Sorelle e superando ancora una piccola forcella alla spiaggia dei Gabbiani, luogo dove sorgeva la cava; non avevamo intenzione di percorrerla ma l’abbiamo comunque persa. L’ultimo passaggio, il canalino termina con una scarpata di un paio di metri, molto friabile, qualche roccia piantata in quella che sembra quasi sabbia da poco affidamento, nessuna difficoltà se non quella di fare una brutta scivolata e perdere la faccia davanti ai bagnanti già spaparanzati al sole. Un’ora e mezza o poco più il tempo per compiere l’intero tragitto. La botta di caldo della discesa non fa ragionare Marina nemmeno un secondo, abbandona zaino e bastoncini, è in acqua nel tempo di un respiro, un venticello fresco ed il colore verde dell’acqua sono un richiamo irresistibile cui è impossibile rimanere indifferenti. Temo il picchiare del sole, prima di seguire Marina armo quello che era nella mia testa un riparo indispensabile; mi ero portato da casa un cordino di una quindicina di metri ed un pareo poco trasparente, i bastoncini li avevo immaginati utili anche come paletti di una improvvisata “capanna”, le pietre per fissare ed ancorare i tiranti non mancavano, in dieci minuti viene su un bivacco da far invidia all’intera spiaggia. Scoccava anche per me l’ora di un bagno rigenerante. L’acqua è verde, per le alghe che coprono il fondo sassoso e per i riflessi che rimanda la montagna, osservare e studiare quel monte dal mare è sempre affascinante, le falesie, i boschi, le rupi, le levigate placche di calcare, i faraglioni che delimitano lo spazio della baia, è natura che urla bellezza, i bagnati scaricati dalle tante motobarche che vengono portati e ripresi a ritmo di pochi quarti d’ora gli uni dagli altri quasi infastidiscono quando ti senti di aver conquistato il paradiso con il sudore. Cercavo dal pelo dell’acqua traccia del sentiero sceso, la forcella sotto il “Pirolo” era molto chiara, lo spigolo su in alto del passo della Croce ancora più evidente, come si arrivasse alla forcella era intuibile ma non intravedevo oltre nessuna traccia, il passo della Croce era un autentico balcone sospeso sullo spigolo e sulla falesia sottostante, per quanto ricca di vegetazione, sembrava impossibile ci fosse un sentiero che salisse fino in cima. Non vedevo già l’ora di ripartire per andare a vedere la realtà dei fatti. Siamo rimasti in spiaggia fino alle 13 e 30 circa, i bagni si sono ripetuti sempre con più frequenza, alla fine invece che aiutare a sopportare il caldo sembrava spossassero ancora di più; ci restringevamo nel nostro fazzoletto d’ombra ma diventava insopportabile l’idea della salita con quel botto di caldo, s’aveva da fare ed era inutile aspettare, la scorta d’acqua si andava assottigliando e ne dovevamo mantenere per la salita, è proprio il caso di dire che abbiamo tolto le tende e alle 13 e 45 abbiamo ripreso a salire. Avevo cercato di tranquillizzare Marina a più riprese che la salita, presa con calma, sarebbe stata più semplice della discesa, e perché è così normalmente e sempre in montagna e perché avremmo percorso diversi tratti in ombra e magari ventilati. Vere entrambe le supposizioni ma il caldo non ci è mancato. Per superare i primi salti rocciosi abbiamo usato le mani, eravamo ancora a livello del mare, i bastoncini erano nello zaino e stavamo usando le mani per arrampicare qualche meno facile tratto, il forte contrasto è stato l’elemento costante della giornata direi; l’attacco è subito discretamente ripido, il passo della salita è più lento ma ci si alza che non ce se ne rende conto, la piccola baia verde smeraldo sotto il “Pirolo”, già molto in basso, riflette i colori del mare, il sentiero sottile si inoltra verso il muro del pilastro ora verticale e di fronte a noi; arriviamo sulla forcella, si salgono pochi altri tornantini insidiosi e prendiamo ad attraversare, il passo della Croce è lassù, ce lo abbiamo davanti e non esisteva ancora parvenza del sentiero per arrivarci, immaginavo che prima o poi si sarebbe manifestato nella sua interezza. Nulla di tutto questo invece, non c’è mai o quasi mai la prospettiva del dopo, si continua a non intuire dove si sale e forse è meglio così, ad ogni passo si scopre il tratto successivo. Nemmeno troppo lenti, superando uno dopo l’altro i salti rocciosi e le esposizioni, fermandosi dove la brezza marina aiutava a riprendere fiato siamo arrivati all’ultima rampa prima del passo della Croce che quasi non ce ne siamo accorti. Un affaccio ancora veloce sulla famosa spiaggia delle Due Sorelle e sulle rupi della montagna e ci siamo “tuffati” nell’ombra del bosco per scappare dal sole ora a picco. Quarantacinque minuti la salita, ne rimanevano più o meno altrettanti e purtroppo molto caldi fino alla macchina. Il rientro, sotto quel botto di caldo è stato mesto, lento, sudato; quello che c’era da prendere era stato preso. Un sentiero storico, una natura ruvida e bella, i panorami assolutamente di prim’ordine ed una spiaggia bellissima ma in questo periodo già troppo frequentata; l’appetito viene mangiando si dice, c’abbiamo già voglia di tornarci, magari con più calma, lontani dall’estate, magari cogliendo una giornata asciutta, ventosa e di ampi orizzonti, col mare agitato, con l’odore della salsedine e il profumo della macchia mediterranea a stordirci. Ora che ne sappiamo di più di questa montagna, ora che sulla pelle si è appiccicata un po’ di storia e la consapevolezza del valore della natura di questo ambiente trovare un po’ di calma e un modo migliore per affrontarla di nuovo mette già acquolina in bocca. Tutte le foto allegate e riportate come repertorio sono state tratte dal libro di Francesco Burattini “Il Conero – i sentieri del lavoro”.